Così come è successo al concetto di sostenibilità, ho l’impressione che anche quello di diversità venga sempre più spesso sfruttato come tematica calda di conversazione – per fare rumore sui media più diversi, per generare “mi piace” e commenti – piuttosto che essere un mindset strategico per le aziende o un valore per le persone.
Tante compagnie internazionali spendono milioni e milioni per comunicare quanto la diversità di genere, sociale e culturale sia un asset, magari pubblicando su Instagram tante belle foto di un organico felice. Con alcuni anni in ritardo sul mondo anglosassone poi, anche da noi cominciano a spuntare seminari ed eventi sull’argomento. Tuttavia, se andiamo a guardare i numeri, sono poche le aziende italiane che possono affermare di avere un personale dipendente la cui diversità sia effettivamente un valore tutelato.
Vorrei, però, fare subito una precisazione, perché credo ci sia anche una non indifferente questione linguistica che grava su questa tematica, un bias cognitivo mi viene da dire.
“Diverso/a” è un aggettivo che il nostro cervello processa solo se è presente anche un opposto. Abbiamo bisogno di un elemento – un’idea, un’abitudine – che diamo per assodato come convenzionale, ordinario, costante per definire qualcosa come diverso.
Spesso però il concetto di diversità porta con sé anche l’idea di strano, poco allineato, non omologato. Come dire: parlare di diversità in relazione a un gruppo di persone – come può essere l’organico di un’impresa – alle orecchie di qualcuno potrebbe suonare come in quell’azienda si assumono persone particolari, fuori dagli schemi.
Ma attenzione: in questo senso, dobbiamo imparare a intendere la diversità come l’insieme delle differenze tra persone che frequentano lo stesso gruppo sociale o professionale. Capisco possa sembrare un confine molto labile, ma nella sostanza cambia molto.
Tornando a noi, fonti ISTAT ci dicono che in Italia solo l’1,9% delle imprese ha previsto una figura professionale che si occupa di diversità, il diversity o inclusion manager. Numeri del genere ci danno uno spaccato oggettivo e interessante sullo stato del mondo del lavoro italiano.
Il diversity management (o DM) è l’insieme delle misure e degli strumenti che gestiscono e valorizzano la diversità dei lavoratori. In altre parole, le politiche atte da un’impresa per rispettare le differenze dei propri lavoratori (e futuri impiegati) legate a genere, età, cittadinanza, nazionalità e/o etnia, convinzioni religiose, disabilità.
Le grandi aziende non avranno problemi ad assumere una figura che sappia come bilanciare o sottolineare i vari background, ma da dove dovrebbe partire una piccola o media azienda che vuole misurarsi con il diversity management?
Comincerei con la redazione di un codice etico e di una carta valori: documenti con cui l’impresa rende espliciti e condivisi un credo, i propri doveri e gli obiettivi, che determinano anche le responsabilità etico-morali da rispettare.
Non bisogna cadere nella trappola di pensare che per fare la differenza si debbano compiere solo grandi passi: prestare più attenzione nel processo di assunzione e supportare la gestione del tempo familiare per entrambi i generi sono accorgimenti che noi tutti possiamo adottare. Così come lavorare a quattro mani su un documento in cui si dichiarino le principali priorità e le convinzioni fondamentali dell’impresa come la carta valori. Ne va della nostra brand reputation, della soddisfazione del nostro personale e anche del rendimento dell’azienda.
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Tiziana Recchia